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Sulla poesia e la personalità di Saba

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Sulla poesia e la personalità di Saba
Sulla poesia e la personalità di Saba

Sulla poesia e la personalità di Saba

Umberto Saba fu un poeta che visse schivo e appartato, lontano dagli ismi letterari dominanti della sua epoca, seppur avendo frequentazioni e rare amicizie nell’ambiente letterario (ad esempio Eugenio Montale e Debenedetti tra tutti). Fu lontano anche dai crepuscolari, perché l’unico poeta crepuscolare degno di nota per lui fu Corazzini. Nella sua poesia si trovano ricordi, raramente delle invettive, ricerca di assoluto, amore per Trieste (le sue bettole, i caffè, le donne).

In “Quello che resta da fare ai poeti”, un suo scritto del 1911, pubblicato postumo nel 1959, Saba sostiene che il poeta deve ricercare verità esteriori o interiori e non deve fare come il letterato di professione: è la cosiddetta “poesia onesta” da contrapporre al dannunzianesimo con il suo superomismo, la sua retorica esortativa, i suoi artifici stilistici, le sue pose, la sua finzione nel far credere di provare sensazioni e sentimenti e la sua aspirazione alla vita inimitabile. In definitiva per il poeta la poesia doveva essere innanzitutto ricerca di verità in senso morale ed esistenziale. Quindi rifiutava la cosiddetta poesia pura. Per il poeta triestino “il sangue fa sangue, il pianto pianto”.

La sua postura autoriale e il suo atteggiamento esistenziale furono alieni dalla vanagloria, dal narcisismo, dal culto della personalità, dall’autoesaltazione dannunziani e perciò più umili, più dimessi e quindi più autentici. Il poeta voleva solo vivere una “calda vita” ed essere “…fra gli uomini un uomo”. Nel Canzoniere sa essere colloquiale e classico. Riesce a declinare i moti del suo animo con limpidezza espressiva. Lontana anche dalle analogie e dai simbolismi dell’ermetismo, la sua poesia fu quindi più lineare e a tratti prosaica. Ma la semplicità è solo apparente: il poeta scrisse sonetti, alternò endecasillabi e settenari; insomma metricamente fu ineccepibile e sappiamo che quando si rispettano le regole dell’eufonia, degli accenti tonici, delle sillabe, delle rime spesso il registro linguistico si abbassa.

Per alcuni oggi la sua poesia può apparire datata, perché oggi la poesia deve essere intellettuale, dopo Eliot, Pound, Montale, Sanguineti, Luzi, Rosselli, Zanzotto, Pasolini, Salinas. Invece in Saba, come scrisse Debenedetti, non c’era “la mediazione della cultura” e la sua era una “poesia senza storia”. Saba assimila la concezione del dolore di Leopardi, ma nella sua poesia spesso riesce a estrinsecare il fanciullino pascoliano. Talvolta si concede anche il divertissement alla Palazzeschi, come nella poesia dedicata alla moglie, paragonata a vari animali (la pollastra, la giovenca, la cagna, la rondine).

Il poeta dice sì alla vita, ma con senso del limite, consapevolezza esistenziale e presagio della fine (come scrisse in “Sera di febbraio” “è il pensiero della morte che infine aiuta a vivere”). A ogni modo per capire meglio la sua poesia dobbiamo trattare anche della personalità.

Saba scrive:

“…..Un grido
s’alza di bimbo sulle scale. E piange
anche la donna che va via. Si frange
per sempre un cuore in quel momento.

Adesso
sono passati quarant’anni.
Il bimbo
è un uomo adesso, quasi un vecchio, esperto
di molti beni e molti mali. E’ Umberto
Saba quel bimbo. E va, di pace in cerca,
a conversare colla sua nutrice;
che anch’ella fu di lasciarlo infelice,
non volontaria lo lasciava. Il mondo
fu a lui sospetto d’allora, fu sempre
(o tale almeno gli parve) nemico.”

Il poeta fu cresciuto da una nutrice, una balia. Ma subì il trauma della separazione. La madre biologica lo riprese. Il distacco dalla balia fu un trauma psicologico. Nella sua vita Saba rivide nelle donne “la madre mesta” (la madre biologica) e la “madre di gioia” (la balia). Non a caso la balia di cognome faceva Sabat e lui scelse come pseudonimo Saba. Il legame primario (fase simbiotica, investimento oggettuale, insomma l’imprinting) Saba li visse con la balia.

Rifacendosi alla Klein il piccolo Berto nei primi mesi passò dalla posizione paranoica alla posizione depressiva, riuscendo a integrare la buona madre (in questo caso la balia) dalla cattiva madre (sempre la balia). Ma le “madri” dopo divennero due persone distinte e lui non superò mai questa dicotomia. Inoltre ci fu un altro trauma: l’abbandono del padre. Quindi abbiamo l’assenza della figura paterna e con essa il complesso edipico non risolto. Saba probabilmente affrontò questi nodi irrisolti della sua psiche con Weiss, psicoanalista, allievo di Freud. Insomma Saba è l’ulteriore dimostrazione che la letteratura occidentale del’900 è contrassegnata dal lato edipico.

Il poeta soffrì di nevrastenia (o nevrosi ossessiva) e di depressione. In “Cuore” scriveva: “Cuore serrato come in una morsa”. A Ettore Serra scriveva in una lettera: “Mi par di vivere come morto in un mondo di vivi”. La sua poesia potrebbe anche essere studiata con l’analisi transazionale (bambino, genitore, adulto). Per quanto riguarda i meccanismi di difesa dell’io in Saba abbiamo il prevalere della sublimazione e della proiezione, mentre invece molto rare sono la razionalizzazione e la rimozione. Infine Saba scrisse anche “Ernesto”, un romanzo incompiuto, pubblicato postumo dalla figlia, in cui il protagonista vive un’iniziazione omosessuale.

Qualcuno vide in Saba un omosessuale latente. Non sapremo mai però se quella del poeta fu nei confronti del protagonista un’identificazione o una proiezione oppure semplicemente un’invenzione. Come rileva la studiosa e critica letteraria Gloria Scarfone il desiderio lesbico è stato rappresentato in letteratura anche da scrittrici non omosessuali. Inoltre nelle opere del poeta l’elemento biografico viene quasi sempre trasfigurato. Di certo sappiamo che l’amore per la moglie fu per Saba un affetto saldo, stabile, maturo.

Davide Morelli 

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Approfondisci con questo video: “10 minuti con…Umberto Saba – 1956” 

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