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Sulla scrittura

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Sulla Scrittura

Sulla scrittura

Perché si scrive? Per esprimersi, per cercare di trascendere la morte, per sfogarsi, per sublimare il dolore esistenziale (e quindi per autoterapia),  per elaborare un lutto o una delusione,  per approdare a una piccola verità. Si scrive prevalentemente per motivi gnoseologici  (anche di autoconoscenza) e/o emotivi e/o sociali; difficilmente gli artisti scrivono per ragioni esclusivamente economiche ed estrinseche  (visto che è difficilissimo campare scrivendo). Si scrive aspettando la morte, come sosteneva Bukowski.  Oppure si scrive aspettando  Godot, come voleva Beckett. La scrittura è riempire il vuoto dell’attesa e dell’assenza; la scrittura è la speranza di un  possibile avvento, di una nuova realtà,  di un nuovo mondo, reale o fittizio, anche ultraterreno.

  La scrittura è altro dalla vita, è un surrogato,  una compensazione o è essa stessa vita, godendo di vita propria? Nei casi migliori scrittura e vita sono dei vasi comunicanti, addirittura un binomio inscindibile.  Ogni scrittura dignitosa è metafora della vita perché ritroviamo nel nostro io tutto il nostro passato, il nostro presente e tutte le nostre aspettative del futuro, più o meno consce,  ma anche metafora della nascita e della morte perché come nella nascita e nella morte siamo da soli con noi stessi. 

Il critico, giornalista,  poeta Davide Brullo in un’intervista ha dichiarato che se una persona gli dicesse che scrive per non uccidere o per non uccidersi, lui non si sentirebbe  nessuno per criticare ciò che scrive. Ma sarebbero  motivazioni più che legittime quelle di chi dice di scrivere per salvarsi dalla follia o di chi dice di scrivere per rompere la solitudine.

C’è chi scrive cercando di semplificare, rischiando di cadere nella banalità,  e chi scrive cercando di restituire la complessità del mondo o del suo mondo, rischiando talvolta di complicare le cose ulteriormente. C’è chi scrive per mettere ordine e chi per aggiungere disordine e caos. Di solito i poeti cercano verità e bellezza negli attimi (a meno che non creino poemi) e gli scrittori nelle storie, ma poi ogni attimo ha la sua storia e ogni storia è fatta di attimi.  Ogni scrittore,  ogni poeta è un registratore, un osservatore: ogni artista per essere tale deve dedicarsi sia all’osservazione del mondo esterno che all’autosservazione (tanto cara anche a mistici come Gurdjieff).

Di solito chi scrive mischia realtà e immaginario, quotidiano e finzione, interno ed esterno per cercare verità e bellezza e al contempo per mostrare l’insensatezza dell’esistenza, l’assurdo camusiano (la realtà che supera l’intelligenza umana e sfugge alla comprensione), le brutture e le nefandezze di questo mondo. La vita è come il gioco degli scacchi talvolta e scrivere è per molti una mossa obbligata. Ma ogni scrittura che si rispetti non è pura vanagloria, anzi è resa di fronte al mondo, è consapevolezza della sconfitta, è dichiarazione di fallimento per motivi conoscitivi, culturali,  sociali, esistenziali, ontologici della scrittura stessa perché le poesie non cambiano il mondo (come scriveva Patrizia Cavalli), né salvano l’anima.

Si scrive insomma dettati da un’urgenza interiore, da una spinta propulsiva interna, che nasce unicamente da dentro. Si dice di solito che un artista deve passare dal particolare all’universale. In certi grandi romanzi ad esempio l’universalità è data dalla polifonia di voci, dalla grande varietà dei punti di vista, ma bisogna ricordarsi anche che tutti quei personaggi e quelle voci non sono altro che subpersonalità dello scrittore (quindi espressione della sua individualità). Nel caso dello straniamento viene rovesciato il punto di vista del lettore, ma  bisogna ricordarsi che solo quello scrittore poteva creare a quello straniamento, che però per essere compreso deve essere universale.

È vero che un artista non può scrivere in un idioletto e rinchiudersi nel solipsismo, ma ogni scrittura che si rispetti  è espressione dell’esperienza personale, della personalità di base dell’autore o dell’autrice  (che hanno un quid unico e irripetibile) e allo stesso tempo dei grandi temi esistenziali, metafisici o sociali di tanti, se non di tutti. Anche la grande poesia è espressione sia dell’inconscio individuale che di quello collettivo. 

La scrittura è significante  che cerca di raggiungere il significato. Ma quale significato? Quello del mondo interiore,  quello del mondo esterno o quello dell’interazione  tra l’io e il mondo? Così come esiste l’arbitrarietà del segno, esiste anche l’arbitrarietà del significato. 

Buona parte della poesia contemporanea è costituita da “corrispondenze” tra stati d’animo, stati mentali e paesaggio: la poesia quindi come interscambio, intreccio tra io e mondo, indipendentemente dal fatto che sia realista o simbolista. 

I romanzi contemporanei sono prevalentemente scritti da narratori, descrittori, saggisti, introspettivi (il flusso di coscienza).  Ogni scrittore privilegia i fatti e la trama (narratori),   la molteplicità fenomenica (i descrittori),  la riflessione (i saggisti),  la verità psicologica (gli introspettivi). Ho scritto “prevalentemente” perché è molto difficile che un romanzo sia totalmente descrittivo, saggistico, introspettivo, narrativo.

Spesso c’è un predominio di questi stili ma con delle pause necessarie. In letteratura non si può essere totalmente categorici e schematici, ma a mio avviso queste distinzioni stilistiche  sono  attendibili. A volte ci sono misture e intermittenze. Molte declinazioni. Infinite sfumature.  Si va dal ragionare tra sé e sé ai dialoghi fitti,  dagli  stati alterati (o espansi)  di coscienza al  razionalismo, dalla visionarietà al realismo. 

La scrittura è costituita dalla personalità e dalla mente dell’autore o dell’autrice: perciò  abbiamo infrastruttura psichica, struttura della coscienza e  sovrastrutture culturali, religiose. Chi accede all’inconscio, chi cerca di smascherare e rivelare le sovrastrutture culturali, chi racconta le ingiustizie,  chi cerca di descrivere la coscienza, chi cerca di narrare i fatti del mondo (anche di un piccolo mondo), chi cerca di rappresentare la realtà è un artista. Ma il mondo esterno si è fatto irrappresentabile, il Sé è in parte inconoscibile, il linguaggio ha dei limiti.

Ecco allora che un’opera d’arte deve denunciare l’inesprimibile, l’indicibile. Quanto indicibile c’è nell’animo umano? Quanto inesprimibile c’è nell’inconscio? E quanto indicibile c’è nella vita, nel mondo, nella morte? 

Davide Morelli

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