Quali sono i nodi della poesia contemporanea italiana?
Vediamo di trattare i più salienti oggi. Ce ne sarebbero altri, ma a mio avviso quelli che analizzerò sono i temi più divisivi e più problematici. Sono, per quel che mi riguarda, i veri nodi al pettine della poesia italiana. Quali sono i nodi da sciogliere?
La questione dell’io lirico
Alcuni critici e poeti vorrebbero rimuovere l’io lirico. C’è chi cita Gadda, che ne “La cognizione del dolore” scrive: “l’io è il più lurido dei pronomi”. Personalmente trovo più appropriato citare Nietzsche, secondo cui l’io è una convenzione grammaticale. Alcuni critici sostengono che molti poeti e aspiranti tali siano troppo egoriferiti e vorrebbero quantomeno “la riduzione dell’io”, proposta dalla Neoavanguardia. Alcuni poeti si sono rifugiati e rintanati nel loro io perché il mondo forse è colmo di brutture e orrori. Alcuni poeti probabilmente hanno scelto l’io perché non hanno una generazione in cui identificarsi e in cui riconoscersi, come sostiene la professoressa e poeta Elisa Donzelli.
La proposta da parte della critica e della cosiddetta poesia di ricerca di un io ridotto ai minimi termini, ovvero residuale, se non proprio annullato, è a mio avviso una reazione, prima di tutto psicologica, all’egotismo e all’autobiografismo sfrenato di alcuni poeti neolirici. Ma quali sono le alternative? Una poesia basata sull’oggettualità? Una poesia basata sulle voci degli altri? Ai poeti quindi non resterebbe che captare le voci della massa con la tecnica dell’eavesdropping? Una poesia epica? E si può oggi scrivere ancora poesia epica? Oppure aveva ragione Flaubert quando scriveva che ogni buon romanzo è un “poema epico”? Oppure bisogna rifarsi alla poesia orientale impersonale e scrivere haiku, pur essendo occidentali dalla testa ai piedi?
Anche nella preghiera e nella meditazione l’io viene ridotto al minimo, se è vera preghiera (non interessata) e autentica meditazione. Ma coloro che professano un io residuale in poesia sono capaci di fare della loro poesia una vera meditazione, una vera preghiera? Sempre sulla psicologia, a onor del vero si può dire “io” e aver introiettato dentro di noi le parti migliori degli altri e si può parlare del mondo e degli altri proiettando in modo smisurato noi stessi, rispecchiandoci soltanto nel mondo. Ci può essere tanto mondo nell’io e al contrario tanto io nel mondo.
Introiezione o proiezione? Ci possono essere introiezioni “sane” e proiezioni patologiche. La questione dell’io lirico passa soprattutto dalla psicologia, ovvero dai meccanismi di difesa dell’io utilizzati inconsciamente dai poeti, al di là dello stile e della poetica. Il problema a mio avviso non è troppo io o troppo poco ma una giusta dose, un equilibrio tra io e mondo. Bisogna anche ricordarsi che come ogni attività umana è un’interazione continua tra natura e cultura, ogni poesia dignitosa è anche un feedback continuo tra io e mondo: essere è (soprattutto) essere percepito, come scriveva Berkeley.
Quali sono i nodi della poesia contemporanea?
i poeti sono troppi?
Secondo J. Rodolfo Wilcock la morte dell’arte avverrà per “affollamento”. Oggi molti scrivono, pubblicano, pur leggendo poco. È un dato di fatto incontestabile. Non si può negare l’evidenza. Però coloro che hanno la vocazione della poesia spesso non rinunciano. Sono pochi quelli che smettono di scrivere poesie perché insoddisfatti dei loro componimenti o dell’andazzo generale della poesia italiana.
Pochissimi, insomma, sono quelli che si fanno da parte. Tutti i poeti o gli aspiranti tali pensano di poter scrivere qualcosa di nuovo e/o di pregevole. Scrivere e di conseguenza pubblicare è diventato un imperativo. Secondo il poeta Eugenio Lucrezi, a causa dell’aumento della scolarizzazione, oggi sempre più poeti o aspiranti tali scrivono versi decenti. Insomma la qualità si è innalzata rispetto a un tempo. Forse non ci sono più altri Pasolini, Montale e Rosselli, però il livello medio è più elevato rispetto a un tempo. Insomma non spiccano grandi geni, ma l’asticella si è alzata.
E allora come premiare i migliori? Alcuni sostengono che oggi si pubblicano in Italia troppi libri di poesia. Come possono i critici e gli addetti ai lavori stare dietro all’enorme mole di pubblicazioni? Talvolta alcuni critici ammettono candidamente: “io questo autore non lo conoscevo, forse perché è ritenuto non collocabile per la grande editoria o perché troppo defilato, schivo, appartato”. Oggi ogni aspirante poeta si autopromuove. E allora come premiare i meritevoli? Come distinguere i più bravi tra la massa? È davvero possibile? Oppure è una scelta arbitraria in qualche modo?
Contano più l’apparire, essere presenzialisti, farsi vedere, sgomitando, che la ricerca e il labor limae sui versi. Manca la riflessione. Nessuno si prende del tempo per lavorare su sé stesso e sulle proprie liriche, come un tempo. Oggi i poeti devono produrre, pubblicare sempre nuovi libri perché la stessa comunità poetica lo impone. Altrimenti si esce fuori dal gioco! Altrimenti si è out! Come fare a emergere? Questo è ciò che si deve chiedere un poeta, oltre a porsi la domanda: “mi merito di emergere?.
Invece i critici giustamente devono chiedersi chi fare emergere, ammesso e non concesso che ai letterati riconosciuti interessino davvero le voci nuove della poesia italiana. Già il quadro della situazione è complicato. A tutto ciò inoltre non giova il narcisismo degli autori, a cui talvolta si somma il narcisismo dei critici.
Quali sono I nodi della poesia contemporanea?
Chi è davvero poeta?
Chi è davvero poeta? Un’altra questione è la riconoscibilità del talento poetico, a cui avevo accennavo prima. I criteri con cui definire un poeta sono più opinabili rispetto a un tempo. Se ne potrebbe discutere per ore di cosa è o non è canone e di chi fa il canone oggi, se lo fa la critica o più realisticamente il pubblico. Su quali basi considerare poeta una persona? Quali sono le tappe, i gradini? Cosa fa veramente curriculum? Cosa è importante?
Quali sono le cose rilevanti e addirittura irrinunciabili che un poeta deve avere? Il talento in sé non basta. Deve anche essere riconosciuto dagli altri. È poeta chi ha un certo consenso critico? Chi ha pubblicato libri di poesia? Chi ha vinto almeno un premio di poesia? Chi ha pubblicato su riviste letterarie autorevoli? Chi è pupillo di un grande poeta? Chi è presente in molti blog letterari? Chi ha migliaia di follower sui social? Chi declama le poesie in televisione? Chi fa parte di accademie letterarie?
Chi ha pubblicato con una grande casa editrice? Chi ha fondato una nuova corrente poetica? Chi viene antologizzato nei manuali di letteratura scolastici? Chi ha una pagina su Wikipedia? Chi è stato fotografato da Dino Ignani? Chi viene intervistato a una radio, seppure locale? Chi viene recensito sui quotidiani? Chi è stato tradotto in altre lingue? Chi è stimato dalla comunità poetica? Chi è candidato al Nobel? Oppure chi scrive testi di canzoni famose?
Tradizione e innovazione
Per essere poeti ci vuole tradizione e talento individuale, almeno per Eliot. Molti in ogni ambito parlano di un sapiente mix di tradizione e innovazione. Spesso la conoscenza della tradizione è molto vaga e approssimativa, mentre al posto dell’innovazione abbiamo una goffa imitazione.
È così difficile rinnovare la poesia italiana? Per trasgredire bisogna conoscere le regole preesistenti e di frequente mancano le basi. Inoltre dopo duemila anni di letteratura occidentale forse tutto è già stato scritto e al massimo ai poeti non resta che scrivere note a margine dei grandi capolavori. Secondo questa scuola di pensiero non resta che la riscrittura.
Come scrisse il poeta Carlo Bordini: “Tutto è già stato detto ma io lo dico di nuovo”. Eppure come nota Alfonso Berardinelli la poesia non riguarda solo le costanti antropologiche, in parole povere la natura umana, ma anche l’essere nel mondo, ovvero la storicità dell’uomo.
Ne consegue però che, come si suol dire, un poeta debba essere testimone e non discepolo del suo tempo, ma anche che un poeta debba descrivere la storia in cui è immerso e non la cronaca. Resta però il problema che, mentre viviamo gli eventi, spesso è difficile distinguere la cronaca dalla storia.
Un poeta può vivere con poco?
Si può essere poeti e vivere con poco? Alda Merini visse povera in un piccolo appartamento a Milano, senza mai lavorare in vita sua. Valentino Zeichen viveva a Roma in una baracca, facendo lavoretti saltuari. Attilio Lolini visse scrivendo articoli di giornale, ma la sua esistenza era minimalista. Aldo Nove si è ritrovato in ristrettezze economiche. Lo scrittore Giuseppe Genna scrive: “Sono uno scrittore. Misteriosamente mangio”.
Ritornando ai poeti, è risaputo dall’antichità che carmina non dant panem. E allora come campa un poeta? La scrittura da sola non basta. Lo scrittore Guido Morselli non riuscì mai a pubblicare in vita, ma aveva delle piccole rendite. Sono pochi in Italia oggi che possono vivere di sola scrittura artistica. Spesso un poeta si deve cercare un altro lavoro, perché essere poeti non è un lavoro al giorno d’oggi. Finisce così che la poesia è sovente un dopolavoro, un hobby a cui dedicarsi nel tempo libero.
Ciò è la dimostrazione ulteriore che in questa società consumista spesso bello e utile non coincidono. La poesia non paga il cibo, né le spese mediche. Difficile fare pari con la poesia: tra pubblicazioni, presentazioni di libri, quote di iscrizione per partecipare ai concorsi letterari, viaggi per ritirare premi, frequentazioni, aggiornamenti con l’acquisto di libri e riviste, impiego di tempo (perché come si sa il tempo oggi è denaro) sono tante le spese da accollarsi. A questo si aggiunga che alcuni poeti talvolta non hanno senso pratico, non sanno fare i cosiddetti e volgarmente detti in Toscana “conti della serva” (entrate/ uscite, dare/avere).
D’altronde va detto che alla propria carriera artistica un poeta che si rispetti ci deve credere e per crederci deve tirare fuori dei soldi, volente o nolente. L’ho già scritto altrove ma lo riscrivo: la poesia è l’unica nicchia di mercato, almeno in Italia, con cui molto spesso non si guadagna. Per essere poeti comunque in molti casi bisogna scegliere una strada impervia, irta, solitaria. Essere poeti significa spesso scegliere una povertà dignitosa e decorosa. Significa scegliere la rinuncia, il sacrificio, talvolta il sacrificio di sé stessi, a costo di non essere compresi, né valorizzati.
La strada più facile è il conformismo, l’arrivismo, il consumismo, il mainstream, l’opportunismo. Un poeta deve andare contro l’obbligo sociale di fare i soldi a tutti i costi. I veri poeti non si allineano, non si compromettono, non si vendono al miglior offerente, perché la poesia autentica è anche scelta di vita e coerenza: insomma alle parole devono seguire i fatti. Come scrive Vecchioni in una canzone: “Basta poco per essere felici. Basta vivere come le cose che dici”.
Però sorge spontaneo questo interrogativo: se la poesia non è incisiva nella realtà, il poeta deve essere impegnato politicamente e/o socialmente? Non può chiamarsi fuori? Insomma un poeta deve scegliere da che parte stare o è più corretto non prendere una posizione? Insomma essere contro significa essere con l’opposizione o fare come Pasolini che era totalmente contro, quindi anche all’opposizione dell’opposizione? E ancora siamo sicuri che l’impegno politico non diventi per i poeti la scelta di comodo per trovarsi un buon impiego, avendo come referenti e padrini onorevoli e cardinali?
Ma a questo punto la vera domanda da porsi è quella di Hölderlin: “Perché essere poeti in tempi di povertà?”
Ne vale davvero la pena?
Quali sono i nodi della poesia contemporanea italiana? Per ora mi sembrano questi. Ma si scioglieranno prima o poi? Oppure con il tempo se ne aggiungeranno altri?
Davide Morelli
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