Un tempo una mia insegnante di liceo diceva che in poesia conta soprattutto il come si dice. Nel Novecento a mio modesto avviso la poesia è oscillata sempre tra il polo del puro contenutismo e il formalismo, sempre più raro e ricercato, anche se in fin dei conti – diciamocelo francamente – hanno sempre prevalso la metrica informale e il verso libero sull’ipermetrismo. Potremmo rovesciare completamente la prospettiva e affermare che in poesia in questi ultimi decenni conta soprattutto cosa non si dice. A volte ho la netta impressione che vinca il non detto, perché indicibile, incomunicabile, inesprimibile oppure perché rimosso individualmente o collettivamente. Ma ciò è davvero autentica poesia? La vera poesia dovrebbe riportare alla luce l’oscuro, il taciuto, il materiale spurio, il sommerso. Dovrebbe trattare ciò che ancora non è stato scritto, non è stato espresso. È vero che troppa verità fa male. Eliot scriveva che “il genere umano non può sopportare troppa realtà”. Emily Dickinson avvertiva che la verità doveva essere detta obliqua perché “La Verità deve abbagliare gradualmente/ O tutti sarebbero ciechi”. Montale nella sua lirica “Incespicare” scriveva “Una volta qualcuno parlò per intero/ e fu incomprensibile”. Però ad esempio l’impegno politico non viene più espresso nella poesia italiana contemporanea. I poeti italiani si professano in tanti contro il sistema, contro il potere, ma raramente si trova traccia di poesia civile (probabilmente hanno anche ragione, visto la fine che ha fatto Pasolini). Quante tematiche non sono state affrontate dai poeti in questi anni perché scomode? La professoressa Elisa Donzelli ha tenuto una conferenza sulla rimozione del trauma collettivo del terrorismo in poesia. Ma in fondo bisogna pensare anche che i poeti non hanno mai affrontato dignitosamente il tema della mafia oppure il crollo delle Torri Gemelle, tanto per fare due esempi. Sembra proprio che il poetichese con la scusa di trascendere la cronaca si sia dimenticato totalmente della Storia, quella appunto con la S maiuscola. Se la Storia entra nella poesia di questi ultimi anni, lo fa in modo molto marginale, quasi risibile. È un discorso di convenienza, di opportunismo? I poeti non sono più capaci di affrontare i traumi collettivi oppure il rischio è troppo elevato? D’altronde i poeti sono sempre nel mirino. Quando Matteo Fantuzzi ha pubblicato un grande libro di poesia sulla strage di Bologna, intitolato “La stazione di Bologna”, frutto di ben 10 anni di lavoro, qualcuno su dei blog letterari lo attaccò personalmente, sostenendo che aveva speculato su una tragedia collettiva. Forse di certe cose dà fastidio parlarne e il libro di Fantuzzi era eccellente. Comunque bisogna anche affrontare certi eventi collettivi con serietà, con decenza, coniugando la giusta distanza alla partecipazione emotiva, evitando la retorica, il sentimentalismo, la lacrima facile. Tutto ciò non è affatto semplice. Pochi sono in grado di farlo. Non è affatto facile essere cantori di quest’epoca sciagurata, ma non si può neanche rimuovere tutte le sciagure, perché a non affrontarle si è più colpevoli che ad affrontarle malamente. Concludiamo con una poesia civile di Zanzotto su Maria Fresu, una delle 85 vittime della strage di Bologna del 1980, che fu polverizzata dall’esplosione. Fu ritrovato solo un frammento di pelle a 150 metri dalla stazione, sul binario 1. Zanzotto scrisse che di lei era rimasto solo il nome e aveva 24 anni.
“Il nome di Maria Fresu”
E il nome di Maria Fresu
continua a scoppiare
all’ora dei pranzi
in ogni casseruola
in ogni pentola
in ogni boccone
in ogni
rutto – scoppiato e disseminato –
in milioni di
dimenticanze, di comi, bburp.